Non so quale risultato volessero ottenere gli amici del Comitato 10 Febbraio di Ruvo di Puglia sottoponendo la mia ricerca al dott. Silvano Olmi, presidente nazionale del Comitato 10 Febbraio. Anzi, sorge il dubbio che né gli amici ruvesi né il dott. Olmi abbiano voluto spendere del tempo nella lettura approfondita di quanto ho pubblicato.
Il comitato ruvese si sarebbe facilmente accorto che Olmi riporta i risultati della mia ricerca e dunque li conferma. Dato che i commenti social alla lettera del dott. Olmi parlano di “verità ristabilita”, prendo atto che finalmente siamo giunti ad una sintesi comune. Ma vediamo come il dott. Olmi ha confermato punto per punto quanto rilevato dalle mie ricerche.
Questione n. 1 – La metodologia di ricerca
Scrive Olmi:
ho effettuato alcune ricerche storiche su fonti aperte facilmente reperibili su internet. Questo per fare chiarezza anche su quanto scritto dal signor Vincenzo Colaprice e più in generale per ricostruire le tragiche vicende che i riguardano i ruvesi vittime della criminale ideologia comunista jugoslava: Vincenzo Pellicani, Donato Minafra e Mauro Chiarulli
Apprendiamo, quindi, che il dott. Olmi non ha consultato né archivi né documentazioni cartacee, ma ha consultato “fonti aperte facilmente reperibili su internet”. Considerato che per ovvie ragioni sono l’unico ad aver trattato questo tema, in quanto mi occupo della storia ruvese del Novecento, l’unica fonte “facilmente reperibile” sul web è quanto io stesso ho prodotto. Infatti, è possibile riscontrarlo nei prossimi paragrafi.
Prima di proseguire, è opportuna una nota a margine: tutto quello che pubblico non contiene giudizi morali su ideologie e su vicende storiche. Come ricordava Marc Bloch, lo storico non è un giudice, non ha il compito di “stabilire verità”. Lo storico si limita ad esporre, comprendere ed interpretare i fatti.
Al contrario, in più passaggi, Olmi si lascia andare a pareri soggettivi e non richiesti sul comunismo. D’altra parte Olmi non è uno storico, come si può desumere dal curriculum pubblicato sul suo sito, né ha un titolo scientifico che lo possa far definire “ricercatore storico”.
Ora, è pur vero che nel nostro Paese chi lavora nell’ambito umanistico è privo di ordini o riconoscimenti giuridici formali delle categorie di appartenenza (penso alla battaglia portata avanti dai professionisti dei beni culturali). Non esiste un “ordine” degli storici, dei letterati, dei filologi o degli archeologi. Non mancano certamente gli appassionati di studi umanistici che provano a cimentarsi con la ricerca. Tuttavia, credo che sia palese operare le giuste distinzioni tra chi si occupa per professione di ricerca storica e chi se ne occupa nel tempo libero. Per farla breve: fareste mai pilotare un aereo a chi non è mai entrato in una cabina di pilotaggio, ma è solamente un appassionato?
Questione n. 2 – Mauro Chiarulli
Prendo atto che è finalmente sciolto ogni dubbio: il deceduto Chiarulli ha come nome Mauro e non Mario come riportato sulla lapide ruvese. Se lo dice il presidente nazionale del Comitato 10 Febbraio c’è da credergli. Pertanto, questa prima criticità rilevata dalla mia ricerca è confermata. Immagino che il comitato ruvese provvederà alla correzione della lapide. Ma andiamo avanti.
Olmi racconta di aver consultato il database online del Ministero della Difesa, altresì detto Onorcaduti, ovvero lo stesso database che pongo come primo strumento di analisi nel paragrafo “Impostare la ricerca” di pagina 10 nel saggio pubblicato nel 2023. Olmi sostiene che su tale database risulterebbe la morte di Chiarulli a Škofja Loka in Slovenia. Nulla di più falso.
Come si può constatare nell’immagine, il database Onorcaduti non riporta il luogo del decesso di Chiarulli, ma solo la data di dispersione. Chiunque può verificarlo, effettuando la ricerca a questo link: https://documentazione.difesa.it/Il_Ministro/ONORCADUTI/Pagine/Amministrativo.aspx. Per ricavare il luogo del decesso ho dovuto richiedere informazioni a fini di ricerca all’Ufficio di Stato Civile del Comune di Ruvo di Puglia, attraverso apposita richiesta scritta. Pertanto, il dott. Olmi non ha effettuato alcuna ricerca sul povero Chiarulli, ma al massimo ha ripreso quanto da me scritto, oltretutto confermandolo.
In merito all’ospedale di Škofja Loka non ho mancato di precisare le condizioni durissime riservate ai prigionieri italiani e non ho mai parlato di Škofja Loka come luogo di cura. Non c’è bisogno di scomodare Biloslavo, basta leggere quanto ho scritto a pagina 12 nel paragrafo dedicato a Chiarulli. Riporto qui integralmente quel passaggio:
I prigionieri venivano internati in campi e strutture della Jugoslavia. L’ospedale di Škofja Loka fu certamente un luogo inospitale e sinistro per gli internati, in quanto sprovvisto di attrezzature e medicinali adeguati. Qui venivano ricoverati gli internati ammalatisi in altri campi. Secondo le fonti citate da Maria Teresa Giusti, in campi come quello di Borovnica o all’ospedale di Škofja Loka i militari italiani decedevano principalmente per cinque cause: «deperimento; ferita da arma da fuoco (per tentata fuga o sospetta attività fascista); incidente sul lavoro (es.: scoppio di residuato bellico da disinnescare); avvelenamento da erbe; difterite».
Una testimonianza di un militare italiano permette di immaginare come si presentasse il campo pochi giorni prima della morte del Chiarulli:
«Verso la fine di luglio del 1945 fui trasferito nell’ospedale di Skofja Loka. Ero in gravissime condizioni, ma dovetti fare ugualmente a piedi i tre chilometri che separavano la stazione ferroviaria dall’ospedale. Fui subito rinchiuso in una stanza dove esalava un fetore e una puzza nauseante. […] Eravamo nella stanza in 150, ammassati uno accanto all’altro, senza pagliericcio e senza coperta. Nella stanza ve ne potevano stare, con una certa comodità, 60 o 70. Dalla stanza non si poteva uscire neppure per fare i bisogni corporali. A tale scopo nella stanza vi era un recipiente di cui tutti si dovevano servire. Eravamo affetti da diarrea! Con porte e finestre chiuse. Ogni notte ne morivano 2, 3, 4. Ricordo che nella mia stanza in tre giorni ne morirono 25. Morivano e nessuno si accorgeva: solo la mattina si vedevano irrigiditi. Eravamo trattati male dagli infermieri tedeschi. I medici si interessavano un po’ di più. Ma mancavano medicine».
Dunque, il dott. Olmi conferma la morte del Chiarulli a Škofja Loka in Slovenia e non nelle foibe giuliane.
Questione n. 3 – Donato Minafra
Nel caso di Minafra, Olmi dice poco. Si limita a citare l’archivio online dei caduti della RSI, ovvero l’archivio Valentini del quale mi ero già occupato nel saggio pubblicato nel 2023 e che pure avevo citato. Nella versione online dell’archivio la causa della morte riportata è “fucilato o assassinato”. Da chi? Olmi si lancia in un’asserzione non sostenuta da alcuna fonte: “o è stato rastrellato e fucilato oppure infoibato”.
Al contrario, chi scrive, citando una fonte del Vaticano, faceva riferimento ad una lettera del padre del Minafra che riportava gli ultimi avvistamenti del figlio a Trieste e lo descriveva come coinvolto nella Resistenza. Lo stesso padre del Minafra temeva la deportazione del figlio da parte degli jugoslavi e le ragioni erano state esplicitate dal sottoscritto a pagina 15 del saggio.
Questione n. 4 – Vincenzo Pellicani
Sul Pellicani non c’è molto da aggiungere ed Olmi si limita a ripetere con altre parole quanto io stesso ho scritto, citando in maniera pedissequa la fonte del database dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione da me riportata a pagina 16 del saggio. Anche in questo caso Olmi non dà nessuna risposta diversa da quanto già scritto. Piuttosto si lancia in tre interrogativi senza alcuna risposta. Anzi no, conclude sollecitando una verifica della documentazione degli archivi della prefettura di Trieste.
Ma come? Non è lo stesso Olmi a sostenere in apertura che
tornando alla ricerca storica […] occorre ricordare che moltissimi cadaveri degli infoibati non sono stati ritrovati o non è stato possibile recuperarli, perché la quasi totalità delle foibe è rimasta in territorio assegnato dal Trattato di Pace alla Jugoslavia.
E quindi? Ci sono o non ci sono fonti che aiutino a capire chi è stato infoibato? E se sì, quali? Potrebbe essere l’occasione giusta per integrare questa ricerca.
Quanto alla bassezza della stilettata rivolta “agli amici degli amici croati e sloveni”, mi limito a sorvolare. Di certo non è il sottoscritto a doversi preoccupare delle proprie amicizie. Non è il sottoscritto a rilasciare interviste sul quotidiano di CasaPound, pretendendo di spiegare su una testata neofascista l’utilità di parlare di foibe nelle scuole.
Questione n. 5 – L’onorificenza ai caduti e ai congiunti delle vittime delle foibe
Su una sola questione Olmi ha pienamente ragione, ovvero quando ricorda che la Legge 92 del 2004 (voluta dal governo Berlusconi) ha istituito il conferimento di riconoscimenti, attestati e medaglie a infoibati e ai loro familiari. Inoltre, la legge equipara agli infoibati anche a tutti quei cittadini italiani “scomparsi e […] soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato” in Istria, in Dalmazia “o nelle province dell’attuale confine orientale” nel periodo che va dall’8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 (giorno di firma del Trattato di pace con la Jugoslavia). La legge poi allarga la casistica a quei cittadini italiani morti “in conseguenza di torture, deportazione e prigionia” tra il “10 febbraio 1947, ed entro l’anno 1950”.
Stando a questi criteri sarebbero eleggibili come “vittime delle foibe” i soli Pellicani – la cui famiglia ha ricevuto l’onorificenza – e Minafra, in quanto “scomparso”.
Chiarulli, invece, è deceduto nel 1945 in Slovenia da prigioniero di guerra e non in Istria, Dalmazia o nei territori del confine orientale: Škofja Loka si trova a pochi chilometri da Lubiana e passò dal 1941 sotto il controllo tedesco. Chiarulli non è scomparso e non è stato vittima di “annegamento, fucilazione, massacro, attentato”.
Dunque, Chiarulli non rientra nella casistica prevista dalla legge. Un ulteriore errore che si somma al nome sbagliato sulla lapide. Olmi non si è accorto di questo caso? Eppure da presidente nazionale del Comitato 10 Febbraio dovrebbe conoscere la legge a menadito.
D’altra parte, l’onorificenza riservata alle vittime delle foibe prevede una casistica talmente ampia che in questi vent’anni le sviste non sono state poche. Si pensi al caso di Vincenzo Serrentino, prefetto fascista di Zara, inserito tanto dal governo De Gasperi quanto dagli Alleati nelle liste dei criminali di guerra italiani e perciò giustiziato. Inoltre, come scoperto dal giornalista Alessandro Fulloni del Corriere della Sera, un quotidiano che è tutto fuorché comunista, l’onorificenza è stata assegnata ad altri criminali di guerra e militari fascisti.
Insomma, ai sensi delle nostre leggi, per essere considerati infoibati non è necessario essere stati infoibati per davvero, ma rientrare in una delle tante casistiche previste. Una scelta piuttosto singolare, se si considera che la nostra Repubblica nel dopoguerra ha ritenuto necessario costituire attraverso il Ministero della Difesa undici commissioni regionali e una nazionale, composte da militari dell’Esercito e partigiani di ogni schieramento politico, che hanno passato almeno vent’anni a studiare documenti e raccogliere testimonianze utili a stabilire quali cittadini italiani avessero realmente preso parte alla Resistenza. Oggi, quella mole di lavoro è consultabile attraverso l’archivio dell’Ufficio RICOMPART, parzialmente accessibile online. Al contrario, ogni qual volta ci si imbatte nelle vittime delle foibe spuntano spesso informazioni grossolane e contraddittorie. Ma tanto è bastato per procedere con medaglie, lapidi e riconoscimenti.
Infine, aggiungo un ultimo aggiornamento che potrà essere utile agli amici del comitato ruvese e nazionale.
Recentemente, l’autrice della lista dei pugliesi “infoibati”, ovvero Laura Brussi Montani, mi ha contattato via mail in merito alle ricerche pubblicate, sostenendo di attendere informazioni per “correggere molto volentieri eventuali incongruenze”.
Cosa bisogna dedurre? Che in quella lista famosa ci sono incongruenze ed errori?
Forse questo può essere un primo passo verso una ricostruzione corretta della vicenda delle foibe e non inquinata da pressappochismi? Ovvero, è possibile innalzare monumenti e apporre lapidi in nome di uomini e donne vissuti tragicamente, senza che si abbia contezza del loro vissuto?
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